01 10

Posted in Uncategorized on gennaio 9, 2010 by abissiscarlatti
Porto del Pireo, Atene. Notte estiva. Alla base di un molo, tra vecchie auto parcheggiate, resti di cassette ed altre immondizie. Seduto su una panchina, un ragazzo – che sarei io. Intorno ed a perdita d’occhio luci al neon, insegne vacillanti di agenzie viaggi, di chioschi o di officine, grandi edifici cadenti e polverosi, strade banchine e navi ormeggiate, molte sono addormentate, alcune ancora ed altre già sveglie. Silenzio interrotto solo da qualche motore. Il ragazzo è l’unica persona nel primo colpo d’occhio, l’unico essere umano le cui movenze possiamo distinguere dal nostro punto di osservazione, che deve essere alto poco più di una persona e posto alle spalle del giovane. Siamo quindi degli osservatori privilegiati, ma per partecipare meglio all’atmosfera della storia dovremmo sentirci sporchi e stanchi, e non dormire a lungo e su un letto vero da almeno due notti. Perché così è per il ragazzo – per me là. Aver bevuto qualche birra aiuterebbe anche, e sentirsi in bocca ed in testa il ricordo dell’ultima canna, praticamente una sigaretta corretta – stiamo al risparmio.

Non sembra che stia per succedere qualcosa, in realtà. Manca ancora qualche ora all’alba e fino a quel momento non ci si aspetta che accada molto, è un momento di pausa che normalmente si attraversa dormendo. Qua però dormire non è contemplato – sarebbe scomodo, e pericoloso forse, dato che siamo pur sempre in mezzo ad un grande porto. E, soprattutto, siamo nervosi e tesi. Lo è il ragazzo e dobbiamo esserlo anche noi, che siamo – lo si sarà capito ormai – una sua proiezione di qualche tipo. Il momento di pausa è ideale – sia per noi che per lui – per spiegare come si è arrivati qua. Lo sappiamo noi e lo sa lui, che dopo essersi guardato attorno per qualche minuto scava nel suo zaino e ne estrae un piccolo quaderno. È evidente che questo stato di cose è e rappresenta un’alterazione rispetto alla consuetudine, un’increspatura – scrivo “increspatura” sul quaderno, è la prima parola da diversi giorni e mi sembra in questo momento un ottimo condensato di sensi. Diciamo “è e rappresenta” perché si tratta allo stesso tempo di un simbolo e del suo significato, come se il ragazzo stesse vivendo una metafora – annoto anche “vivere una metafora”. E comincio a scrivere.

increspatura – Vivere una metafora
Sì, vivere una metafora. Questo momento, questa notte di indecisione, questo squallore suburbano che però, cazzo, è anche poetico. Un simbolo di come mi sento. Parto? Resto? Torno? Lo sapevo che il viaggio non mi avrebbe portato consiglio, sono stati solo altri due giorni alcolici ed immobili – a mollo nell’alcol, buona questa, me la devo segnare. È che volevo rimandare e rimandare ancora, ma non potevo più restarmene fermo a casa. Oh, non che ci credessi troppo. Quindi la questione è molto semplice: prendo il traghetto e raggiungo Ada o, beh, sono ancora in tempo per lasciar perdere. Che in ogni caso, poi, non riesco a vedere più in là di domani. Uh, ed io mi ero illuso, davvero, di essermi liberato del suo ricordo, e invece. Com’è grottesco che sia andato avanti per più di un anno a tormentarmi su poche notti – credevo mi avrebbero potuto cambiare per sempre. Quanto sforzo ho fatto per dimenticarle, mesi e mesi di concentrazione, ed ogni volta che stavo per cedere, chilometri di corsa fino allo sfinimento. Ma sembrava servire, ne stavo uscendo. Ero quasi riuscito a ricostruirmi a fatica una vita sociale, a frequentare persone, a provare per loro un genuino interesse. E poi, poi è bastato un odore. Tutto è crollato in un instante, tutto è stato inutile. Tutto. È stato. Inutile. INUTILE. Quanta fatica gettata, quanto tempo quanta vita bruciata, ed ora sono qua, e l’erba non mi aiuta di certo, e aspetto la nave e non so ancora cosa fare.

Seguiamo il ragazzo mentre scrive. Ci sta mettendo molto tempo, ad ogni virgola si ferma, rilegge, guarda il mare. Dopo aver messo l’ultimo punto si blocca, come intontito, poi si scuote, chiude il quaderno senza rileggere e lo mette nello zaino. Potremmo lasciarci sfuggire un sorriso ironico quando capiamo che si sta girando una canna. Come per il diario, anche adesso procede molto lentamente. Si guarda intorno attento, sbriciola, sventra una mezza sigaretta, il tutto con la massima precauzione e facendo continue pause ogni volta che sente qualche rumore. Se osserviamo bene possiamo vedere che gli tremano le mani, e che più volte rischia di rovesciare tutto. Quando finisce alza la testa e si stira la schiena, e con gli occhi chiusi fa tre lunghi e profondi respiri, chiuso e concentrato. Poi accende, tirando a pieni polmoni.

Una nuvola densa si solleva dalle sue labbra nella penombra giallastra, mentre stringe gli occhi e si scuote, il viso contratto e la mano libera che si stringe sull’altro braccio, come colto da un brivido di freddo. Continua con grandi boccate, muovendosi sempre di più ed apparendo via via più teso e tremante. Sbarra continuamente gli occhi e si muove a scatti. Quando è arrivato a metà, improvvisamente da dietro un silo appare il traghetto. È rimasto nascosto per tutto l’avvicinamento, e quando entra nella visuale nostra e del ragazzo è già vicinissimo, il ponte sta calando e sopra ci sono due marinai. La coperta è affollata. Si blocca – mi blocco.

Lo vediamo bloccarsi. Lo guardiamo in faccia, mentre fissa stordito la nave. Vediamo il panico affiorare sotto la superficie dei suoi occhi verdi, come un mostro marino che risale dagli abissi scarlatti delle sue viscere. Gli leggiamo dentro – a noi è permesso. Trema.

Pensa che la nave gli appare immensa e minacciosa, un mostro mitico grondante rumore e ferro, unto e sporco. Pensa che l’erba era troppa e troppo forte, e che l’effetto gli ricorda le pastiglie – e non sono ricordi gioiosi. Pensa che il mostro marino che è il traghetto mentre attracca sembra venuto a sfidarlo, e che si sente mancare il coraggio. Pensa che è davvero sconvolto, e si rende conto di sragionare, ma non può farci niente. Pensa che la sfida del mostro-traghetto è la sfida che Ada, senza saperlo, gli ha lanciato, e di nuovo e di più si sente dentro una metafora. Intravvede la faccia della ragazza in una macchia sulla paratia della nave, delira silenzioso, scuote la testa. Prende dalla tasca il biglietto, fa un respiro profondo, trattiene il fiato e corre verso il ventre di ferro. Raccoglie la sfida, sale, parte.

11 09

Posted in Uncategorized on dicembre 14, 2009 by abissiscarlatti

Caro Claudio, “È stato bellissimo stare assieme.” Ricordi quel momento, è stato il nostro apice e non ce ne siamo accorti. Avremmo dovuto capirlo, sarebbe stato più tragico ma molto più onesto. E più simile ad un romanzo, avresti aggiunto. Lo ricordo anch’io. Ricordo l’inverno nei tuoi occhi, il senso di inevitabile disfatta. Ricordo anche che sul momento non capii che le mie parole mi avevano preceduta. Credevo fosse il commiato dopo una giornata passata assieme, e invece stavo parlando per sempre. Ti guardai che mi guardavi, muto. Avrei dovuto capirlo, avrei dovuto lasciarti allora. Ci ero così vicina ormai. Ed invece abbiamo continuato, e da li è stato, lo sai, sempre peggio. La tua ansia ha cominciato a logorarci, perché già si intravvedeva la piega che stavamo prendendo, diventando sempre più una questione puramente meccanica. Lui, lei, stanno assieme, si baciano, fanno l’amore. Mi faceva paura già allora, ma non avevo il coraggio di essere drastica. Continuavo a ripetermi, Sii paziente, uno di questi giorni capirà. Vedrà i limiti del nostro comportamento, della sua miopia emotiva. E forse cambierà, smetterà di darmi per scontata, e tutto tornerà come all’inizio, quando l’ingenuità e la continua sorpresa ci toglievano letteralmente il fiato, quando svegliarsi l’uno accanto all’altra era ancora una poesia. Così mi illudevo, e continuavo scegliere la strada più facile, che mi ha portata però nel cuore del labirinto, dove l’unica via d’uscita è questa lettera. E non è indolore. Sto soffrendo, anche se forse non mi crederai. Non pensare di essere l’unico che starà male. E ti anticipo, se vuoi evitare che ti succeda di nuovo, non chiuderti. L’autocommiserazione non ti porterà da nessuna parte, è insopportabile per chi ti sta intorno – ne so qualcosa. Sto soffrendo ma non mi fa male starti lontano, ora. Non sopporterei il tuo sguardo da cane bastonato, dopo che per mesi e mesi non vedevi – non volevi vedere, non ti interessava, eri troppo tronfio – al di là del tuo cazzo. Quindi, sì. Ti lascio. Fatti vivo quando te la senti, ma non implorare, sarebbe terribile per entrambi. È stato bellissimo stare assieme. ciao. A.

12 09

Posted in Uncategorized on dicembre 4, 2009 by abissiscarlatti
È stato un attimo, l’attimo in cui l’immagine dentro si è sovrapposta all’immagine fuori, in cui la realtà e la paranoia hanno coinciso. Per quell’attimo, le due parti sono state indistinguibili, e questa confusione mi si è bloccata dentro. Non è ancora uscita.
Mi ero svegliato con un’immagine in testa. Aveva cominciato ad apparirmi già la sera prima, ma è stato nel dormiveglia mattutino che si è sedimentata. Era un’immagine usuale, quasi banale. Una ragazza ed un ragazzo in atteggiamento affettuoso. Lui alto, chino, con una felpa viola ed i jeans logori. Una mano sulla schiena di lei ed una sul collo, molto esposto. Lei vestita di nero e celeste, con le mani in tasca, più chiusa, lo sguardo voltato ed il viso contratto, come concentrata a reggere un dolore. Non li conoscevo, nessuno dei due. Posso dirlo con certezza perché l’immagine era molto dettagliata, vedevo perfettamente anche i lineamenti e le movenze, mi avevano danzato davanti agli occhi la mattina ed avevo continuato a pensarci per tutto il giorno. Lei, lui, le mani, i visi. La scena aveva una grande forza emotiva, e questo perché – senza nessuna ragione che potessi vedere – sentivo una terribile gelosia per quella ragazza. Non sapevo chi fosse e non era nemmeno particolarmente bella – il volto era freddo e scarno, asciutto, il corpo spigoloso – ma la bramavo mia, ed il vederla con un altro – sconosciuto come lei – mi portava ad un passo dalle lacrime, che solo con grande sforzo riuscivo ad evitare.
La totale follia della situazione non mi era naturalmente sfuggita, ma per quanto cercassi non riuscivo a trovare vie d’uscita. Stufo di vagare per la casa bloccato dalla scena che non dava segno di svanire, al primo imbrunire sono quindi uscito. Avevo pensato che un po’ d’aria, e possibilmente qualche superalcolico, avrebbero potuto sviarmi.
Arrivato al terzo Canadian Club, qualcosa fuori dalla sudicia vetrata del bar di periferia dove ero finito ha attirato la mia attenzione. Ho saputo da subito cos’era, ed ho anche saputo che per quanto mi fossi sforzato non avrei potuto resistere senza voltarmi. Erano loro. Proprio loro due, lui e lei, inconfondibili, nel preciso atteggiamento in cui mi erano apparsi. Lui che la stringeva e la guardava, e lei con lo sguardo catatonico rivolto – follia – diritto verso di me. Sono rimasto bloccato, mentre quello che rimaneva del wiskey mi si spandeva addosso. In quel momento è scomparso il confine tra i due mondi, ed è stato come perdere conoscenza, come svenire. Appena ripreso sono corso verso la porta, benché non avessi idea di come avrei reagito. Uscendo ho inciampato sul gradino e sono caduto a terra. Avevo ancora il bicchiere in mano e mi si è rotto contro il viso, ma sul momento ho pensato solo a rialzarmi e rincorrerli, perché appena ero sbucato si erano velocemente mossi. Col volto sanguinante, sbronzo e quasi incosciente, ho preso a seguirli, ma non riuscivo mai a raggiungerli. Attraverso la nebbia dell’alcol, delle lacrime e del sangue, riuscivo a malapena ad intravvederli che se la battevano nella strada buia e deserta, tra resti di automobili e cumuli di immondizia, lei che ancora, a tratti, si voltava per guardarmi – o almeno così mi sembrava. Finché, ad un incrocio, li ho persi. Ho corso ansimante in tondo, cercandoli nelle varie strade, ma erano spariti. Mi sono guardato attorno, girando su me stesso finché non ho perso l’equilibrio e sono rovinato al suolo, in mezzo al piazzale.
Stremato, i singhiozzi che si perdevano nella notte e scheletri di cantieri abbandonati, enormi teschi di cemento e ruggine, che mi guardavano impassibili.

11 09

Posted in Uncategorized on novembre 15, 2009 by abissiscarlatti

11 09

La cosa peggiore, forse, è che questo dovrebbe essere il momento migliore, in cui totalmente privi di desideri ci si può sentire veramente se stessi, liberi, ed invece tutto quello che sento è una grande pesantezza, un cupo senso di squallore, come una tragedia in grigio. La più grande delusione che riesca a ricordarmi. Il fondo del fondo, raggiunto improvvisamente dopo la scopata più attesa e bramata della mia vita.

Era diventata un’ossessione. Per molto tempo non sono riuscito a pensare a niente altro, a nessun’altra. Ho vissuto quasi un anno tormentato dalla certezza assoluta ed incrollabile che Marla non mi vedesse nemmeno, che fossi aria ai suoi occhi. Non osavo rivolgerle la parola; perché non credevo mi avrebbe neanche sentito, perché l’emozione mi toglieva qualsiasi controllo sul tono delle parole, come succede ai ragazzi quando cambiano voce e ad ogni momento non sanno se parleranno con quella da adulto o quella da bambino. Così i mesi passavano, ed io morivo ogni giorno un po’. Non avevo bisogno di nessuna conferma della sua indifferenza verso di me perché mi bastava il dolore, che con acute fitte mi bloccava il respiro ogni volta che la vedevo o la pensavo, mi bastava il dolore per togliermi qualsiasi speranza. Ci separava un abisso, pensavo, l’abisso di tutta la mia adorazione, e riempirlo mi pareva semplicemente inconcepibile.

E non c’era modo possibile in cui qualcuno o qualcosa avrebbe potuto sviarmi dalle mie certezze, perché ero troppo concentrato ed ossessionato dalla mia personale immagine di Marla e del mio amore per lei per poterci ragionare. Era una realtà a se, senza alcuna comunicazione con l’esterno. C’era solo il mio buio, e si alimentava da solo. È stato per questo che nel momento in cui tutto il teatrino mentale è crollato ho fatto difficoltà a crederci.

È stato poche ore fa. Ero all’Aurora, avevo passato la serata a darmele con i soliti altri, spettri catatonici al mio pari, frustrati e repressi come la quasi totalità delle facce che incontro ogni giorno per le strade della città. La solita folla chimica sciamava attorno indifferente. Ogni sabato ormai ci incontriamo e ce le suoniamo finché qualcuno non decide di averne avuto abbastanza. Zoppicavo. Lentamente me ne stavo uscendo, sporco e sudato, un labbro spezzato e gonfio, uno zigomo nero e tracce di sangue sparse sulla maglietta strappata. L’avevo già intravista, ma l’Adrenalina – dea tra le dee delle mie innumerevoli frequentazioni psicotrope – mi rendeva abbastanza leggero da non sobbalzare alla sua vista, ed abbastanza – e ce ne voleva – per chiederle di spostarsi dato che mi bloccava l’uscita. Poi, l’imprevedibile:”Prima, però, devi baciarmi.”

La sorpresa ci ha messo un po’ a raggiungermi, tanto ero distante in quel momento, e solo quando ho realizzato davvero il senso di quello che aveva detto ho alzato lo sguardo ai suoi occhi. In un’altra situazione avrei esitato fino al panico, incapace di reagire e di decidere, ma quello era un momento particolare. Devo ancora all’Adrenalina – che mi scorreva abbondante nelle arterie come ogni volta che finiva una serata del genere -, se il movimento delle mie labbra rotte e tumide verso le sue è stato così fluido ed inevitabile. Quello che è successo dopo ve lo potete sicuramente immaginare. Sul momento infatti non me ne rendevo conto, ma stavo seguendo dei binari collaudati, in cui ogni movimento era già stato scritto e praticato da schiere di persone nella mia stessa situazione. Quello che mi sembrava il culmine del mio desiderio, la meta finale in cui non avevo mai osato sperare, ne era in realtà il momento più ovvio e scontato.

Ma di questo me ne accorgo solo ora. Ora che sono disteso sul letto sfatto, con Marla a fianco che dorme nuda e scomposta. E, soprattutto, brutta.

C’è qualcosa di perfido nel fatto che solo ora mi sembri di vederla davvero. Eccoci qua, soddisfatti dopo che abbiamo ottenuto quello che credevamo di volere. Eccola qua, inerme, esposta e pallida come un mollusco fuori dalla sua conchiglia. Ne vedo le infinite imperfezioni, i dettagli sbagliati, le proporzioni vere e troppo terrene. Ne sento il respiro, ed è un respiro imperfetto, ne osservo la forma e non è quella che sognavo. E poi osservo me, svuotato materialmente e mentalmente, senza più nessuna tensione mi accorgo di non sentire più la vita. Cadente, mi guardo allo specchio e mi faccio schifo.

Ebbene, penso, eccomi qua. Ho ottenuto quello che mai credevo avrei potuto ottenere. Il massimo.
Tutto quello che ho sempre voluto.
E quindi? Cosa rimane? Dei mesi di tensione, cosa rimane? Dell’angoscia e del dolore come lame roventi, cosa rimane? A cosa hanno portato?
Sono passato da una frustrazione all’altra, da una desolazione all’altra.
E mi dico, non c’è via di mezzo, non c’è scampo. Questo momento è troppo una metafora della mia vita, una sua riproduzione in scala.
E scendo dal letto, ed apro la finestra, ed è l’alba ed è grigia e umida.
E mi dico, non voglio continuare così.
E mi dico, non posso.
E salgo, e salto.

09 09

Posted in Uncategorized on novembre 6, 2009 by abissiscarlatti
09 09
Un inizio di cui mi manca la storia. Però mi piace.

Il bosco di pini e latifoglie, in buona parte piantati nel 1859 quando il territorio era ancora austriaco, forma una larga striscia verde alle spalle del ciglione carsico, subito a nord di Trieste, a picco sulla città e sulla costa. La striscia verde, contrariamente a quanto si potrebbe pensare ad una prima occhiata se la si vedesse dall’alto, è fortemente umanizzata e piena di strade e stradine, la più grossa delle quali è la statale 22, che congiunge il valico di confine di Fernetti alla cittadina di Sistiana, e, più ad est, all’isontino ed al Friuli. La strada è larga in mezzo al bosco, dritta tra il confine sloveno da una parte ed il grande gradino dall’altra, che scende al mare. Invita a correre, ed è per questo che è uno dei collegamenti preferiti per i controlli della polizia stradale.
È notte, la strada è semideserta. La golf nera dell’ottantotto non sta correndo. Al volante c’è infatti Nino, che certe cose le sa bene. Nino non accelera, guida calmo. Sembra tranquillo, i suoi occhi castani controllano il tachimetro e la strada. Si è sistemato per l’occasione, porta una giacchetta di pelle quasi pulita e quasi nuova, dei jeans non troppo distrutti. Pulito. Sembra tranquillo ma non lo è affatto. Nino ha infatti in tasca un foglio con cinquanta trip, da consegnare, a Gorizia, ad un tizio di cui conosce solo il soprannome.
“Per cinquanta miseri trip”, pensa senza però scomporsi esternamente, “tutto sto cesso. Mah…Solo perché me l’ha chiesto Fede. Fede non sbaglia. Cioè, non ha mai sbagliato. Cioè, non ha ancora mai sbagliato.” Nino sa per esperienza che simili catene di pensieri difficilmente portano del bene, eppure non può trattenersi. “E sta qua poi, ma chi cazzo è.” Volta leggermente lo sguardo alla sua destra, cerca ancora una volta di decifrare la sconosciuta al suo fianco. Bassa, un po’ grossa, capelli neri a caschetto ed un bel viso da bambina felice, sempre tranquillo e scherzoso. Come se non stessero rischiando chissà quante beghe per neanche cento euro a testa. Anche qua, difficilmente Nino la avrebbe accettata come garante e compagna, se non fosse stato per Federico, che si era preso la briga di organizzare il tutto. La ragazza – Nino ne ignora persino il nome – restituisce lo sguardo e sorride, in silenzio come è rimasta per l’ultima mezz’ora, da quando cioè sono partiti dallo scuro piazzale di periferia in cui si erano incontrati. L’asfalto e gli alberi, scuri contro il cielo notturno, le scorrono dietro.

10 09

Posted in Uncategorized on ottobre 25, 2009 by abissiscarlatti
Il neon alla lunga stordisce.
Il continuo mormorio  delle persone intorno a me, appena amplificato dalle pareti in cemento armato, crea un tappeto di rumore bianco, irregolare ed alienante. È da un po’ che aspetto, ormai. Sono in un’aula dell’università, la lezione dovrebbe essere già cominciata, ed inizio a pensare che ormai non si farà. Sono solo, e silenzioso. Non conosco nessuno dei miei compagni di corso, né mi interessano. Sono qua per la lezione, ma la lezione non comincia. È strano, questo ritardo, ma sembra che io sia il solo a notarlo. Intorno a me, infatti, le voci senza faccia non sembrano stupirsi, ed  è come se fossero persone diverse, ognuna ferma per pochi minuti. Come certe volte in aeroporto, quando dovevo aspettare per un’intera giornata e le persone che mi circondavano andavano e venivano, sempre diverse e sempre uguali. Un’infinità di dettagli che si confondevano, entrando ed uscendo dalla mia scarsa attenzione.
Solo che siamo in un’aula, e la porta è chiusa, e da molto ormai nessuno entra o esce. I frammenti che colgo dai discorsi intorno a me mi portano argomenti ricorrenti – professori orari programmi esami – ed ho a volte l’impressione fortissima di risentire più volte esattamente le stesse parole. Non ho niente da leggere, sono venuto qua per la lezione, e provo allora a scrivere, a prendere appunti. Provo ad immaginare cosa potrà raccontare il professore quando entrerà, se entrerà. Potrebbe iniziare presentando rapidamente gli autori che studieremo, e le loro principali caratteristiche. Ma che autori saranno? E perché li avrà scelti? I miei appunti sulla lezione immaginaria si fermano prima di iniziare, al titolo, e poi resto con la matita a mezz’aria a fissare la lavagna vuota. Tutte le superfici sono simili, sembrano intercamabiabili ed indifferenti, lisce e solo un po’ sporche, come se fossero all’inizio di una lunga incuria. Se striscio il dito sul banco lascio una traccia appena visibile sotto il neon. La luce non cambia mai, il tempo sembra non passare. Ogni tanto il volume del brusio che mi circonda cala per qualche momento, ma è solo un caso, una pausa contemporanea di qualche conversazione.
Penso che potrei andarmene, ma non vorrei perdermi la prima lezione del corso.
Mi scopro a pensare al mondo fuori da quest’aula, e mi sorprendo a non ricordarne i dettagli. I volti dei miei familiari mi sfumano davanti senza che riesca a fermarli. Sono ipnotizzato dai quadretti sulla pagina, stordito dall’attesa, e dal biancore del neon. Penso a cosa farò quando uscirò, penso che tutti i miei conoscenti saranno cambiati, invecchiati, e chissà se riuscirò a riconoscerli.

10 09

Il neon alla lunga stordisce.

Il continuo mormorio  delle persone intorno a me, appena amplificato dalle pareti in cemento armato, crea un tappeto di rumore bianco, irregolare ed alienante. È da un po’ che aspetto, ormai. Sono in un’aula dell’università, la lezione dovrebbe essere già cominciata, ed inizio a pensare che ormai non si farà. Sono solo, e silenzioso. Non conosco nessuno dei miei compagni di corso, né mi interessano. Sono qua per la lezione, ma la lezione non comincia. È strano, questo ritardo, ma sembra che io sia il solo a notarlo. Intorno a me, infatti, le voci senza faccia non sembrano stupirsi, ed  è come se fossero persone diverse, ognuna ferma per pochi minuti. Come certe volte in aeroporto, quando dovevo aspettare per un’intera giornata e le persone che mi circondavano andavano e venivano, sempre diverse e sempre uguali. Un’infinità di dettagli che si confondevano, entrando ed uscendo dalla mia scarsa attenzione.

Solo che siamo in un’aula, e la porta è chiusa, e da molto ormai nessuno entra o esce. I frammenti che colgo dai discorsi intorno a me mi portano argomenti ricorrenti – professori orari programmi esami – ed ho a volte l’impressione fortissima di risentire più volte esattamente le stesse parole. Non ho niente da leggere, sono venuto qua per la lezione, e provo allora a scrivere, a prendere appunti. Provo ad immaginare cosa potrà raccontare il professore quando entrerà, se entrerà. Potrebbe iniziare presentando rapidamente gli autori che studieremo, e le loro principali caratteristiche. Ma che autori saranno? E perché li avrà scelti? I miei appunti sulla lezione immaginaria si fermano prima di iniziare, al titolo, e poi resto con la matita a mezz’aria a fissare la lavagna vuota. Tutte le superfici sono simili, sembrano intercambiabili ed indifferenti, lisce e solo un po’ sporche, come se fossero all’inizio di una lunga incuria. Se striscio il dito sul banco lascio una traccia appena visibile sotto il neon. La luce non cambia mai, il tempo sembra non passare. Ogni tanto il volume del brusio che mi circonda cala per qualche momento, ma è solo un caso, una pausa contemporanea di qualche conversazione.

Penso che potrei andarmene, ma non vorrei perdermi la prima lezione del corso.

Mi scopro a pensare al mondo fuori da quest’aula, e mi sorprendo a non ricordarne i dettagli. I volti dei miei familiari mi sfumano davanti senza che riesca a fermarli. Sono ipnotizzato dai quadretti sulla pagina, stordito dall’attesa, e dal biancore del neon. Penso a cosa farò quando uscirò, penso che tutti i miei conoscenti saranno cambiati, invecchiati, e chissà se riuscirò a riconoscerli.

10 09

Posted in Uncategorized on ottobre 5, 2009 by abissiscarlatti

questo potrei intitolarlo “Conversazione con l’uomo del lavandino”

“NO, no, basta. Dico, almeno per un po’. Tipo qualche anno haha. HA-HA! No, ti dico, guarda che l’altra volta l’ho deciso io di andarci sai? Lo sai no? Te l’avevo detto no? Cioè insomma per una volta mi son detto, dai cazzo Claudio, per una volta invece di rovinarti di porno, no, esci un po’. Mi sentivo anche bene, pure, attivo capisci. Cioè insomma attivo, insomma sì, ho pensato dai esci, fai qualcosa. Così. Alla fine è stata un’idea del cazzo, chiaro. Ma come potevo saperlo, o cioè insomma, è vero, POTEVO saperlo, ma poi, dai lo sai, giudicare a posteriori è comunque una cazzata no? Beh è andata così, che alla fine sono uscito davvero. Cazzo mi sono pure vestito bene, dai. Robe che non capitavano da mesi. E sono finito in ‘sto cazzo di locale disco bar pub checazzonesò. Una roba da truzzi proprio, ma alla fine pensavo, per una volta proviamo il massimo del degrado no? Quando tocchi il fondo comincia a scavare come diceva quell’altro. Merda la sapeva lunga eh? Quindi insomma, beh prima roba la musica era ma una MERDA, che dico io ma che cazzo ha in testa sta gente? Insomma le classiche tamarrate degne di un locale dove fuori tutte le auto ma diocane proprio TUTTE, sono truccate e con i cazzo di adesivini e le cazzo di lucine blu, e tutti sti fighetti in tiro, ingellati ed arrapati che fanno i brillanti con quelle puttane di plastica. Che schifo cazzo che SCHIFO. E la cosa peggiore – uh naturalmente ero già sbronzo, capirai – la cosa peggiore, ma me ne sono reso conto dopo, solo ora tipo, la cosa che più mi fa vomitare se ci penso è che più li odiavo, a sti decerebrati truzzi  brillanti e pieni di sè, e più li INVIDIAVO. Cioè io stavo là da SOLO, anche perché comunque non volevo testimoni, io stavo là come se avessi una scopa su per il culo, in mezzo a tutta sta merda umana, e VOLEVO ESSERE COME LORO. E non me ne accorgevo, e sentivo solo un vomito schifoso giusto dietro la lingua, ma è chiaro che era così. E poi ste troie, cazzo, erano STRA-FIGHE! Chiaro. Ma ci pensi mai? Come mai se vai in fogne del genere è sempre pieno di gnocche? E non è solo che erano tutte mezze nude. Che squallore. E insomma, stavo là e davvero non capivo un cazzo, e stavo male capirai. E ad un certo punto ha cominciato a tirarmi. Miodio che schifo. Stavo là in mezzo a sto bordello – letteralmente – e c’avevo pure il cazzo duro. E stavo male. Cioè magari tu associ un’erezione a qualcosa di piacevole. Beh beato te. Quindi, che cazzo potevo fare? Sono andato in cesso a menarmelo.  È stato più difficile del previsto perché ogni volta che stavo per venire ero sopraffatto dal disgusto, ma insomma alla fine ce l’ho fatta. Una liberazione, ma anche una vergogna terrificante. Cioè cazzo renditi conto, ero in mezzo a gente indegna persino di guardarmi, e mi sentivo pure inferiore. Mai più guarda. Beh, ero là al lavandino che mi ripigliavo, e insomma mi vedo allo specchio, e già la faccia era abbastanza per, era abbastanza. Ma poi vedo che mi sono schizzato ADDOSSO! Capirai, era davvero eccessivo. Neanche me ne ero reso conto e già stavo gettando a schizzo. E di nuovo, addosso. Cioè avevo la cazzo di polo fighetta del cazzo tutta chiazzata di vomito e sborra. Uno spettacolino no? E proprio in quel momento entra uno di loro, di sti deficienti cocainomani palestrati imbecilli fascistoidi del cazzo. E tanto ero disgustato da me e da lui, e non so CHI mi faceva più pena e ribrezzo, che quando mi ha guardato, e mi è sembrato che avesse capito tutto, anche se alla fine gente come quella non capisce una mazza mai, e insomma mi squadra un po’, e gli faccio, e tu, che CAZZO vuoi, eh? E insomma mi ha fracassato lo zigomo, owio. Non l’ho nemmeno visto, il pugno.”

09 09

Posted in Uncategorized on settembre 30, 2009 by abissiscarlatti

Roberto spinge. Sotto di lui si flette il corpo nudo e perfetto di Cecilia, lucido per il sudore.

Se non fosse sconvolto e in un altro mondo, Roberto forse penserebbe a quanto tempo prima tutto questo sarebbe potuto succedere. Se non fosse sconvolta, Cecilia forse cercherebbe dentro di se le origini di questo momento, venuto fuori tanto all’improvviso. Entrambi però sono ben poco lucidi, e non solo perché stanno scopando nel cesso di un locale. E nemmeno – benché in gran parte ci contribuisca – solo perché il tutto è avvenuto senza nessun presentimento né intenzione nel giro di pochi minuti. Non solo per questo: Cecilia ha bevuto almeno tre rhum e parecchio vino, Roberto – cosa rara – ha mangiato due cuoricini a petto e fumato di conseguenza svariati cannoni in più del cospicuo solito. Certo, se non stessero avvinghiati ed ansimanti probabilmente le molecole che ospitano gli lubrificherebbero i pensieri, almeno in apparenza, e di domande se ne farebbero molte. Anche troppe, direbbero molti loro amici. Perché Roberto e Cecilia, forse, sono molto simili, anche se hanno appena cominciato a scoprirlo.

Quando Roberto è uscito di casa stasera non aveva nessun piano, né intenzioni bellicose. Aveva cenato con gli amici di sempre, persone la cui conoscenza è talmente totale da permettere di dare spessore anche alla serata più amena e tranquilla. “La vera sostanza delle nostre chiacchiere”, aveva detto loro riflessivo, suscitando la solita ilarità delle sparate pseudo filosofiche, “è il tempo da cui ci conosciamo”. Non aveva intenzioni bellicose, però si sentiva particolarmente ben disposto, ed è per questo che non ci ha pensato troppo quando uno di questi amici gli ha messo in mano, poco dopo essere entrato nel locale, un paio di piccole pastiglie rosa a forma di cuore. La buona disposizione è continuata anche mentre l’effetto saliva, e Roberto si è lasciato trasportare dalla drum’n’bass, leggero e rapito ma senza ansie né angosce. Mentre si stava godendo la notte chimica ha visto passare Cecilia. Ne è rimasto colpito perché non immaginava frequentasse quel tipo di locali. A dire il vero non immaginava nemmeno che non li frequentasse. Roberto conosce Cecilia da sempre, ma non si sono mai frequentati. Sono vicini di casa. Roberto riflette. Tre anni di differenza sono molti, da bambini. Di sicuro abbastanza per crescere per strade completamente separate. Più passa il tempo, però, meno contano: “Quando avremo ottant’anni”, pensa, “saremo praticamente coetanei”; sorride e continua a ballare. “Ed in effetti” – e si accende l’ennesimo cannone – “non è troppo strano ritrovarla qua. In questa città i locali sono talmente pochi, e di talmente pochi tipi, che basta essere venuti su minimamente simili per ritrovarsi alle stesse serate.” “Di certo” – si guarda intorno – “non è una nicchia, questa.” La saluta con un cenno, viene ricambiato.

Poco dopo (o forse molto, non aprebbe davvero dirlo) Roberto è spalmato su un divanetto di simil pelle nera. Continua a fumare e ad osservare i presenti, a rifettere ed a ridere tra se. I pensieri sono da ore in un treno positivo, e non accennano a smettere. Si sente partecipe dell’ambiente ed ha l’impressione di scoprire infiniti legami e verità nascosti tra le pieghe del reale. È però talmente perso in queste contemplazioni che quasi non si accorge della presenza di Cecilia accanto a lui. Quando gli rivolge finalmente la parola è distratto ed etereo – in quel momento sta osservando le lampade sopra il bancone, cercando di ricordarsi in quel film le ha già viste. Sul momento non fa quindi caso allo sguardo ed all’atteggiamento di lei, che – più tardi realizzerà – sembra cercarlo e fuggirlo allo stesso tempo.

Cecilia gli sta parlando, un po’ a vanvera a dire la verità. Si sente agitata, ma incolpa facilmente il vino. Ciononostante si rende conto di comportarsi in modo strano, di parlare senza dire e di sentirsi impacciata senza un vero motivo. Nel momento in cui lo realizza, istintivamente si blocca e lo scruta, lo sguardo fisso. Proprio allora qualcuno la spinge da dietro; lei riesce a mantenere l’equilibrio ma rovescia addosso a Roberto il fondino del suo rhum. Sbarra gli occhi per un attimo.

Lui sembra riconoscerla di colpo. La vede come come comincia a scusarsi, incespicando con le parole e fondamentalmente usandone troppe. Troppe per un incidente così banale, tanto più che il bicchiere era praticamente vuoto. La osserva stupito sorridendo e, in un attimo, capisce. Non solo capisce l’imbarazzo che gli sta dimostrando, non solo la rivede mentre gli parlava, pochi minuti prima: in un momento si accorge anche di tutta una serie di atteggiamenti fisici, di sguardi parole e movimenti, in tutte le occasioni in cui si sono incontrati nei mesi precedenti. Di modi che lei aveva di salutarlo e parlargli, per quel poco che si dicevano, che potevano quasi sembrare altezzosi, o impauriti. E più se ne rende conto, più si accorge di esserne felice, più capisce che, in fondo, non cercava, né aspettava, né sognava altro. Ed allora, come un fenomeno naturale indipendente dalla volontà umana, Succede.

Mesi dopo, forse, Roberto e Cecilia ricorderanno quella serata ed il tempo passato ad aspettarla, rideranno della propria ingenuità, ma, forse, non avranno una visione precisa del momento esatto in cui è successo, come se fosse una luce troppo chiara per distinguere qualcosa.

[se avete apprezzato provate questo]

09 09

Posted in Uncategorized on settembre 27, 2009 by abissiscarlatti

09 09

Quanto un semplice cambio di tono può essere saturo di implicazioni e sottintesi, trasudare mesi di incomprensioni (mie) e sopportazioni (sue), di buon viso (suo) a cattivo gioco (mio). Quanto di colpo tutta l’ironia (mia), tipo scherzo-ma-anche-no, può scomparire come vaporizzata, lasciando solo  lo sconforto (nostro).

“***, ti prego, basta

09 09

Posted in Uncategorized on settembre 17, 2009 by abissiscarlatti

09 09

Questo funziona bene se avete idea di cosa siano i livelli di pensiero nel poker. Ma forse anche no.

Voglio organizzare una cena con tre amici. I primi due che chiamo paccano, e la terza è una ragazza carina del nostro giro con cui ho più o meno smesso di provarci perché evidentemente non attacca. Ora io davvero volevo solo offrire una cena ad un po’ di persone prima di uscire la sera, e la cosa peraltro sarebbe stata limpida come l’acqua se almeno uno degli altri due avesse accettato. Sono ora però nella situazione di decidere se chiamare o no la tipa.

La prima cosa che penso è che la prima cosa che penserà è che voglio provarci, ancora. Che, dico, anche ci starebbe, ma non era affatto la mia intenzione iniziale. Poi ancora, immagino che se quando la chiamo mi premuro di dire subito che avevo anche chiamato gli altri due e che non c’è niente sotto, allora, credo, lei potrebbe farsi qualche dubbio sul perché io debba far notare una cosa che, se non la facessi notare, rimarrebbe del tutto insignificante.  Oppure ancora, anche se è un caso più ipotetico, potrebbe essere che lei scopra, poco dopo, che avevo invitato gli altri dicendo loro che si sarebbe stata anche lei, e che ritenga che non avere ricevuto la mia telefonata sia un chiaro indicatore della mia intenzione di non farle pensare (o capire?) che se avessimo cenato in due sarebbe stato solo perché speravo di portarmela a letto.

Oh, e credo che potrei andare avanti a lungo. Alla fine verosimilmente mi sbronzerò, ci proverò maldestramente e verrò smenato, come da routine.